ANNO 14 n° 120
Peperino&Co.
Messico 1968
di Andrea Bentivegna
13/08/2016 - 02:00

di Andrea Bentivegna

Un capannello di giudici confabula concitatamente attorno alla pedana del salto in lungo, alcuni di loro armeggiano goffamente con un fettuccia cercando di misurare la distanza. Pochi istanti prima un esile ragazzotto americano si era infatti esibito in un gesto atletico senza precedenti. Non sarà l’unico a cui si assisterà in quella Olimpiade.

 Anche noi compiamo dunque un balzo che ci porta direttamente dagli albori del novecento all’anno che quello stesso secolo lo cambiò. Dodici mesi come quelli del resto capitano una volta sola. In quel 1968 si assistette, uno dietro l’altro, ad una sequenza quasi irreale di eventi; Dall’assassinio a Memphis del reverendo Martin Luther King al maggio francese, dalla primavera di Praga all’uccisione di Bob Kennedy. Da lì in poi il mondo non sarà più lo stesso e nemmeno le Olimpiadi.

 Quando quell’americano staccò i piedi da terra dopo una rincorsa fulminea si proiettò nel futuro per e riatterrare così lontano nella sabbia da lasciarsi alle spalle un’intera epoca. I giudici erano disorientati, non avevano nemmeno gli strumenti per misurare quel balzo prodigioso, così cercarono una fettuccia da qualche parte. La distesero non riuscendo a credere a ciò che vedevano: Otto metri e novanta centimetri. Un boato a quel punto scosse lo stadio olimpico di Città del Messico l’unico che rimase impassibile fu lui, l’autore di quella prodezza, l’americano Bob Beamon. Non era infatti abituato al sistema metrico decimale e non aveva quindi la minima idea di cosa significasse quella misura. Poi un suo compagno di squadra si avvicinò spigandogli ciò che aveva fatto: cinquantacinque centimetri più del record precedente, fu sopraffatto, si lasciò cadere a terra.

Cinquantacinque centimetri erano un’immensità. Il più straordinario record della storia dello sport. Per Beamon fu ovviamente un oro -grazie, quella misura verrà infatti eguagliata da un altro essere umano solo nel 1991- e naturalmente una gioia immensa, troppo per lui. Sarà infatti sopraffatto da quel successo non riuscendo più a saltare nemmeno oltre gli otto metri per il resto della su a carriera quindi un triste epilogo con la depressione e la successiva bancarotta. Eppure quell’unico balzo gli valse l’immortalità.

 Un’olimpiade storica quella di Città del Messico non solo grazie a Beamon. Ci fu ad esempio un ventunenne dell’Oregon che partecipò alla gara di salto in alto. Quel ragazzo non era il più talentuoso né il più dotato dei partecipanti eppure non si rassegnò e riuscì ad immaginare qualcosa che gli altri non si sognavano nemmeno di pensare. Invece di saltare l’asticella frontalmente, al termine della rincorsa, Dick Fosbury -questo era il suo nome- si voltava dando le spalle all’asticella saltandola quindi all’indietro. Risero tutti quando lo videro fare quella strana capriola per la prima volta. Poche ore dopo però quel ragazzo era medaglia d’oro e da quel giorno tutti presero a saltare in quel modo, alla Fosbury appunto. Oggi siamo noi a sorridere vedendo le immagini degli atleti che saltavano con la vecchia tecnica cosiddetta ''ventrale''.

 Risultati sorprendenti, vere e proprie pietre miliari della storia sportiva, eppure l’importanza di questi gesti scompare rispetto a ciò che successe nella gara dei 200 metri. Anzi per la precisione a quanto accadde dopo quella gara. A vincere fu un altro atleta straordinario, Tommie Smith, uno che prima di quella gara aveva già migliorato per undici volte il proprio record personale che però era anche quello del mondo. Dietro di lui un australiano eseguito a sua volta da un altro americano, John Carlos. I tre quindi si apprestano a salire sul podio per la premiazione olimpica ma quando e scenderanno faranno direttamente parte della storia, non solo quella dello sport.

Normalmente se vinci una medaglia olimpica ti ammanti con la bandiera del tuo paese, non loro. Sì perché i due americani oltre ad essere dei campioni straordinari erano anche due ragazzi colore e decisero di dimostrare quanto loro e i loro fratelli fossero stufi di essere considerati solo dei neri.

Convinceranno l’altro atleta, il secondo classificato, l’australiano Peter Norman, ad indossare una spilla a supporto dei diritti degli atleti di colore, loro andranno invece molto oltre: sono scalzi -per simboleggiare la povertà-, e indossano ciascuno un guanto di pelle nera -simbolo delle Black Panthers-. Al momento dell’inno nazionale quel pugno guantato lo alzeranno in cielo e al contempo chineranno lo sguardo. Seguiranno quindici secondi irreali in cui il mondo, per la prima volta, dovrà fare i conti con le sue colpe.

Quel gesto di coraggio costerà caro a due atleti che saranno sospesi dalla squadra statunitenseed espulsi dal villaggio olimpico. Tornati in patria, i due atleti subirono altre ritorsioni, dovettero abbandonare la loro carriera di duecentisti e ricevettero numerose minacce di morte.

 Persino l’australiano Peter Norman verrà punito per aver solidarizzato con quei due. Venne violentemente condannato dai media australiani per quanto fatto durante la cerimonia di premiazione a Città del Messico e continuamente boicottato dai responsabili sportivi del suo paese che gli impedirono di prendere parte alle competizioni successive.

Norman morirà nel 2006 dimenticato ormai da tutti eppure il giorno dei suoi funerali Tommie Smith e John Carlos andarono fino in Australia per portare sulle spalle la bara di quell’uomo al fianco del quale avevano scritto una delle più incredibili pagine di storia.





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